Il Cenacolo Letterario e Poetico di San Bonifacio
I TESTI DELLE OPERE VINCITRICI

I TESTI DELLE OPERE VINCITRICI

© per tutte le opere 

 

Premio Poesia GIOVANI
PRIMA CLASSIFICATAla poesia di SOREN KAROL VIGLIONE di Ponso (PD)

 

I QUADRI DI BULLENHUSER DAMM

Hanno appeso in nostri respiri
Come quadri
nella cantina di Bullenhuser Damm.

Era una scuola senza matite
Né filastrocche.
Era una scuola senza maestre
Senza alfabeto o disegni da colorare.

E tremavano i polsi, le dita, le nocche.

Hanno appeso in nostri respiri
Come quadri
nella cantina di Bullenhuser Damm.

Là sotto non c’era mia mamma
Soltanto una corda sbiadita.
Sentii freddo, era mattina.
Al respiro leggero s’appese la morte
come un’àncora ad affondarmi la vita.

Hanno appeso in nostri respiri
Come quadri
nella cantina di Bullenhuser Damm.

Ora che il sole è alto là fuori
nei nostri nomi inciampa il cemento
Come inciampa l’inverno nei fiori.

Motivazione del Premio

 I QUADRI DI BULLENHUSER DAMM

Lavoro di toccante intensità, che ricostruisce con delicate allusioni la tragica vicenda della morte di fanciulli ebrei vittime della crudele demenza nazista. Anche al lettore che non conosca la specificità storica dell’episodio, la sequenza delle emozioni prodotte dal sapiente e delicato dipanarsi delle immagini suscita inquieti e tormentati riverberi di pietà e paura. Ne consegue che la dimensione lirica del registro, intrec­ciandosi con la sottesa e pervasiva drammaticità dell’esperienza storica, disegna con occhio attento e dolente partecipazione una ricostruzione di intensa e coinvolgente memoria poetica.
 Prof. Stefano Quaglia

 

 

Premio Poesia Simone Lorici
PRIMA CLASSIFICATAla poesia di GIOVANNA MAINI di Modena

POETESSA

di Maini Giovanna – Modena

Mi osservo

in un frammento di specchio,

sono artista muta

di un circo tragico.

Cado ogni giorno

senza rete

e rubo ore alla notte

per i miei presunti talenti.

Sulla pista battuta

sono vittima

che soccombe al carnefice,

sacrificata

nello spettacolo della quotidianità.

Le mie fatiche di parole

irrise

dal pubblico pagante

resteranno segrete

sotto questo tendone.

Per volare in alto

potrei fare almeno

la donna cannone?

Motivazione del Primo Premio

 

Funambolico, ardito, intimo parallelo tra un’artista circense e una scrittrice di versi. Tutto accade “nello spettacolo della quotidianità”. Possiamo immaginare il silenzio della stanza, i fogli bianchi, i molti dubbi che affollano i pensieri di chi scrive, la sua solitudine. L’autrice ci pone di fronte a una dura realtà che, potenza della riuscita metafora, nell’immaginario diventa un “circo tragico”, grazie a un frammento di specchio: ecco che il soffitto si trasforma in un tendone, il pavimento in una pista battuta, le parole cercate e trovate con fatica possono volare alte come la donna cannone. L’uso del verso libero e la metrica talvolta spezzata assecondano il fluire del senso creando l’effetto di una tensione: questa poesia ci porta lassù e ci lascia lì, a cercare un equilibrio sul filo, senza rete.

 Ranieri Teti

 

 

Premio Dialetto Veneto 

PRIMA CLASSIFICATA la poesia di SUSANNA DE GRANDIS di Villafranca di Verona

 

FANTASMI VELADI COME NEBIE D’AUTUNO

 

Se anca te me guardaré nei oci,

te trovarè dentro de mi na stansa uda,

e mi non te vedarò come forse te volei.

Non te ciamarò par nome,

parchè l’ho desmentegà,

e ogni roba che dirò la sarà solo voce de malessere de fantasmi quotidiani.

Non ghe sarò davanti a ti,

parchè sarò perso in chisà quali foreste,

e soto ai me cavei bianchi non ghe sarà più le voci de un tempo,

età quando i me muscoli i era forti par alsarte al ciel.

Silensioso e incossiente avansarò nel me mondo inesistente,

passi strapegà, in nebie velade e frede come stagni melmosi,

ma, no piansar se mi voi dir robe sensa senso, farfugliarò,

insicuro e straco, come quando andaimo nel fito del bosco,

e strabucaino nei cespugli de erbe selvadeghe e rami sechi.

Ma alora te tegnea par man, parchè ero mi el più forte e coragioso.

Un giorno che se perde, e n’altro uguale,

e passa i ani, fati de giorni che se someia e i sembra un zugo de spei,

e pian pian le fiacole sui me passi za fati i se indebolisse,

e i trabala ne le noti più dure.

Par questo te domando, sensa più voce e luce nei oci, de farme corajo,

come un tempo mi fasea con ti.

Le vostre face le sarà par mi tante maschere sul proscenio,

ati de tragedie o comedie recità sensa publico,

teatro de na vita dove, infine, ogni ator lè na falsa verità.
                       

 

Motivazione del Premio

  La poesia Fantasmi veladi come nebie d’autuno conferma che il dialetto rimane, oltre il tempo e i mutamenti lessicali, la lingua del cuore, l’espressione sovrana di un sentire profondamente autentico. Ne è testimonianza questo accorato rimpianto, detto in versi amaramente vivi, e quella “stansa uda” che già al secondo verso ci trasporta dentro un’anima smarrita. Il poeta prega la donna amata di stargli vicino come un tempo, di dargli coraggio per affrontare la perdita del senso del vivere: i piccoli gesti usuali del quotidiano contatto, le voci domestiche che svaniscono.  Di aiutarlo a non perdersi nel lento trascorrere degli anni e dei giorni sempre uguali. È un bisogno d’amore che va oltre il tempo e diventa canto.

 Elisa Zoppei

 

 

Premio Narrativa – Racconti 
PRIMO PREMIO a GIORGIO MONTANARO di Desenzano (Bs) 

“Tutto su mio padre”

«Ce l’ho conficcata qua in gola che ancora non mi va giù del tutto. E bisogna guadagnarsela.»

   «Cosa?»

   «La vita, figlio mio,» disse mio padre, «guarda la quercia grande davanti a casa! Ha sfidato secoli di venti e tempeste e sta ancora dritta in piedi sulle sue gambe come niente fosse. Quando Napoleone è passato di qua per andare ad Arcole lei già ci stava. Stava così alta e forte che sotto la sua ombra, lo raccontavano i nostri vecchi, il generale scese da cavallo per orinare addosso al tronco che gli pareva che stava lì apposta per il suo piccolo bisogno».

   «Dobbiamo farla sramare prima che venga giù una tempesta brutta come la Vaia e schianti a terra, papà. I rami sono tanti, troppi, fanno vela. Fatti convinto! Se guardi bene corre pericolo anche la casa che la distanza dalla pianta è poca.»

   «Case così oggi non se ne vedono più tanto per cominciare. Un terremoto a lei gli fa un baffo, le radici della quercia la abbracciano tutta sotto le fondamenta. In principio, ai tempi del re Galantuomo, uno dei nostri vecchi ha visto la pianta alta come il campanile, ha contato venti passi dal tronco, ha segnato le fondamenta con la calcina e ha tirato su la casa, questo so.»

   Faccio convinto mio padre che bisogna sramare la quercia. Lui fa venire un mattino col primo sole di febbraio il dottore delle piante, l’uomo con la motosega e il camion col cassone zincato per raccogliere i rami.

   «Taglia qua. Più sopra. Di lato» comanda il dottore con i baffi neri in maniche di camicia indicando col dito da sotto. La motosega ruggisce.

   «C’è pericolo! Indietro!» si sbraccia l’uomo sul ramo. Pare un fringuello. Rami come fossero le braccia di Carnera cadono giù e volano in aria nidi vecchi, piume e paglie. È toccato per primo al ramo grosso, proprio quello a cui mio padre giovane una domenica dopo Pasqua legò la soga per fare l’altalena per me e mio fratello che io lo guardavo pieno di meraviglia e di gioia. Lui pareva un grillo, allora, che aveva in testa una forca di capelli nero inferno e la collana d’oro con la medaglia di San Cristoforo che ballava nel sole, e io sotto col berrettino giallo in testa dei mangimi “Raggio di sole” mi sentivo una formica.

    Mio padre adesso che si deve sramare la pianta ha la barba bianca ed è rimasto con una misera coroncina di capelli che gli incorniciano il volto stanco. S’è fatto vecchio, io non ho ancora cinquant’anni ma tanti capelli bianchi che mia madre mi dice per scherzo delle volte: «Ti è nevicato in testa?» E io che sono piuttosto vanitoso mi oscuro, più mi oscuro più lei sorride. Fa così per non mettersi a piangere che sa anche lei che la tocca a tutti, pure a un figlio.

   Ho sepolto per sempre la mia infanzia appena ho visto quel ramo grosso ai miei piedi che se potevo tornare indietro non buttavo il fiato a fare convinto mio padre a sramare la quercia. Solo lì ho capito il mio sbaglio a insistere con lui e farlo convinto. Forse non mi ha detto di no perché sa che anche lui eterno non è, che prima o poi deve passare la mano, che nessuno è nato quercia millenaria.

   S’è fatta gente intorno alla pianta il giorno della sramatura. Il paese è piccolo e la voce corre che se fai uno starnuto la sera, la mattina ti domandano se sei malato. Le foglie, i rami dell’albero vecchio hanno ascoltato nei secoli promesse d’amore, hanno visto amori nascere e finire, passare carri, buoi, cavalli, macchine, funerali.

   «Sotto questa ombra tuo nonno ha baciato l’amore suo prima di salire la montagna col fazzoletto rosso al collo e le ha giurato che sarebbe tornato» mi dice mio padre un attimo prima che il lavoro cominci.

   «Di notte ci veniva qualcuno a fare l’amore che poi erano figli maschi» racconta Maurizio postino dalle gambe stanche che fino a ieri sedeva in terra all’ombra, poggiava al tronco la bicicletta della posta come a voler prendere fiato prima della pontara che doveva fare per dare la posta.

   Ride il Boschi a vedere la rovina della pianta in terra, il matto del paese che ogni paese non è paese se non ha il suo matto, uno che la sa più lunga di tutti gli altri: «Ah, ah, ah. Lavorare lavorare, preferisco riposare.»

   Rino della Valona, che passa col Landini rosso che lo vedi estate e inverno in mezzo al campo di lontano che pare un fuoco acceso alla campagna infinita, ferma la macchina in parte, scende, dice anche lui la sua: «Non dico niente, dico solo che prima di fare una roba del genere bisognerebbe domandare in giro alla gente.»

   «Perché? Son sul mio.»

   «Perché una pianta del genere sarebbe di tutti. L’è anche un poco mia che io, qua sotto, de scondon, adesso lo dico, ho fatto l’uomo una notte che tutti dormivano e la luna aveva la pancia che pareva che da un minuto all’altro scoppiava.»

   «E allora?»

   «E allora, dopo il suo tempo, mi è nato Luigino che io lo aspettavo col fiato in gola e ora è la vita mia, lui e la sua mamma.»

   «Ti te si imbriago, Rino. I gà reson a sramare lori qua. La prima tempesta che riva la pianta, secoli o non secoli, l’è in tera e ghé anca pericolo par la casa se l’è par quelo. Verzi i oci!» dice il Boschi.
   «Imbriago sei tu. Non capisci un’acca. Io vedo erbe e piante tutti i giorni, le curo, tu invece mangi, bevi e fai il mestiere del michelasso.»

   «Tasi ti o mi te copo!»

   «Pian con le parole» si mette in mezzo mio padre.

   Prima di mezzogiorno la pianta pare un uomo grande e grosso rimasto di colpo con quattro capelli in testa. La guardo, sfigurata.

   «Cosa abbiamo fatto? La quercia grande si vendicherà in un modo o nell’alto. Guarda cosa ha fatto Sansone dopo che gli hanno tagliato i capelli» dice mio padre a voce bassa.

   Lo sente il dottore delle piante: «Bisognava farlo o con questi venti che oggi vengono su di colpo una volta o l’altra la pianta andava giù. È già successo.».

   Mio padre dice sì con la testa ma non pare per niente convinto. A sera, ha pagato i soldi più amari della sua vita per il taglio che, se gli staccavano una mano, per lui era meglio.

   «Un paio d’anni e qua tutto va in fumo.»

Pareva che se lo sentisse che era solo questione di tempo.

   «Anche il mio bicchiere finisce. La vita l’è un sorso, piante o cristiani non fa differenza. Lavorare, lavorare, non mi va di faticare» ride il Boschi.

   «Allora cosa resta, papà?»

   «Hai studiato figlio mio, lo sai da te.»

   «Sì ma questo non lo so. Più studio e meno mi pare di sapere. Tu lo sai.»

   «L’amore, figlio mio, l’amore, quello resta e un mucchietto di ossa. Senza amore non sta su una casa e neanche una città. L’amore, la musica del cuore, quello è tutto quel che resta di noi. Amare costa fatica però, quello è.»  «Niente dura in eterno. Tempo di nascere, tempo di morire» dice ancora mio padre, vecchio profeta con poca scuola.

   «Facevo tutte le mattine cinque chilometri all’andata e cinque al ritorno per andare a scuola, voi avete la corriera e sbuffate.»

   I vecchi quasi nessuno li ascolta. Straparlano a sentire i giovani che vendono le case vecchie dei padri per due soldi, vanno a stare in città in mezzo al cemento e vivono come se fossero eterni che alla morte non ci pensano.

   Mio padre vedeva con gli occhi del cuore la rovina che di lontano veniva sopra la casa e la campagna. Credeva in Dio, nella Madonna, nei santi e diceva: «Aiutati che il ciel t’aiuta». Voleva dire che è inutile costruire una casa, un pollaio, una gabbia per i conigli se Dio non lo vuole ma la casa, il pollaio, la gabbia li devi costruire tu con le tue mani. E allora Dio c’è per conservarti in salute e fare bene le cose proprio come Lui comanda.

   «Abbiamo fatto male a pelare così tanto la pianta. Ho visto querce vergini nelle montagne del Trentino che loro avranno avuto mille anni e nessuno le ha mai sfiorate con un dito. E io ti ho dato retta, pazzo che sono stato.»

   «No, papà. Lo ha detto anche il dottore delle piante che si doveva fare. Fidati della scienza!»

   «Mi sembra che sono più i danni che fa dei guadagni.»

    Come sia sia a primavera la cima della pianta, superba e verde smeraldo, anche mutila da mettere spavento, bussa alla porta del cielo e il merlo e la tortora ci vengono ancora a fare il nido. Anche il tordo ci viene ed è gazzarra a sera. La tortora ha fatto il nido sulla forcella più alta. Anche la gatta monta sul ramo per tentare di prendere la sua cena. Il cardellino non ha paura che il suo nido si veda, prende a cantare sopra un ramo alto la sua canzone argentina. Rino ferma il Landini, lui che è cacciatore, si mette a sedere un minuto a sognare sotto la pianta mezza nuda, ascolta la cascatella di suoni che scendono giù come pioggia d’aprile dalla cima dell’albero. Mio padre gli si fa vicino: «Non c’è canto migliore di quello dell’uccello libero, eh».

   «Hai ragione, se le metti in gabbia le bestie fanno fino fatica a fare razza e a volte il maschio smette di cantare.»

   Mio padre conosce tutti i versi degli uccelli. Ogni volta che va in campo è come se lui avesse davanti agli occhi un libro, lo apre, lo sfoglia, legge. Mi ha insegnato cose che non si imparano sui libri di scuola, a distinguere per esempio un merlo maschio dalla femmina a colpo d’occhio, il canto di un fringuello da quello dell’allodola o del cardellino. Mio padre è capace di modulare col fischio il verso di molti uccelli senza essere cacciatore. Se prende in mano un pugno di argilla sa modellare in due e due quattro una rosa, una rana, un pesce e li regala a mia madre che li tiene tutti in fila sulla pettiniera della camera.

   «Questo è un canto d’amore! Ssst!»

   «Come si fa a riconoscerlo, papà?»

   «Se ascolti bene senti che in un canto d’amore ci sono tutte le note, lte e basse e soprattutto sembra non debba finire mai. Quello dell’usignolo, per esempio, una creatura che sta nel pugno di un bambino, dura notti e notti. Neanche la Callas canta così bene.»

Svola su un ramo appena punteggiato di foglie verdi la capinera.

   «È la voce dei morti che tornano, figlio mio.»

   Mutilo, l’albero grande è ancora casa, vita. Eppure mio padre non lo vedo contento. Muto, nella pianta lacera e spoglia vede la scopa del tempo che fa pulizia e la vanità delle cose. Gli riesce di vedere con l’occhio del cuore la ruina che presto verrà anche sulla casa e sulla campagna che la circonda in un verde abbraccio. Mio padre è uno dei quei pochi vecchi che ancora non credono che l’uomo è arrivato a fare quattro salti sulla luna.

   «È tutto un maledetto imbroglio americano. Se no perché se ci sono andati una volta non ci vanno più? Io non sono fesso» dice. I suoi amici sorridono giusto per fare i moderni ma lo vedo da me che in fondo al loro cuore sanno che non dice uno sproposito perché subito dopo la risatina si fanno seri e socchiudono gli occhi per riflettere. 

   Mio padre sembra non sappia niente e invece sa quello che conta. Crede in Dio per prima cosa, quel Dio che io ancora sto cercando con la lanterna fioca della ragione e lui invece l’ha trovato subito, a occhi chiusi, fin da bambino. Nel tronco di una pianta l’ha trovato, in una vacca che fa il vitello, nella coniglia ingravidata, nell’acqua purissima e fredda della roggia dietro casa che nasce dal cuore nero della terra.

   Mio padre non dorme più la notte dopo quel brutto giorno della sramatura: invecchiato di colpo come l’uomo che ha visto la morte e gli sono caduti addosso dieci anni tutti d’un colpo. La piccola azienda agricola di famiglia faticava, galleggiava sempre a pelo d’acqua ma era viva e ci dava da vivere. In casa nostra, per esempio, se mangiavo un  pezzetto di grana e poi ne chiedevo un altro ancora non ho mai sentito mia madre dire: «No, che diventi balboto a mangiarne troppo». L’Italia va trionfante in Europa e torna a casa con le quote latte in tasca. A noi, che siamo Bora di soprannome e Gnudi di cognome, ci tocca una quota che è meglio perderla che trovarla, una miseria. Il menalatte non passa più. Di colpo l’azienda diventa un debito, una zecca succhiasangue. La stalla senza vacche una rovina che neanche le rondini ci vengono più dentro a fare il nido e a mangiare le mosche e a noi ci tocca bere il latte nel cartone. Solo i ragni e i ratti ci vengono e mio padre ci mette agli angoli il veleno perché non prendano tutta la casa quando pochi anni prima uscivano da quella porta ogni giorno quintali di latte. Mia madre in finestra guardava, sorrideva. Ed erano soldi e noi bambini facevamo il burro in casa con la bottiglia, bevevamo più latte che acqua, mangiavamo il grana senza pane a merenda. Mi credevo che eravamo ricchi. Mi vantavo.

   Mio padre è sempre stato un uomo piuttosto giovanile, con un’aria un po’ da duro. Prima della sramatura della quercia grande, a guardarlo bene, gli si potevano dare a occhio croce settant’anni, non di più, portati bene, quasi un grillo ancora. Secondo la carta di identità lui era Attilio Gnudi ma in paese era ancora il bocia Bora semplicemente perché, come tutti, anche a lui da ragazzo gli hanno messo il soprannome che, una volta che te lo danno, nessuno più te lo toglie e te lo porti fin dentro la tomba. Anche i soprannomi in paese oggi sono morti, niente è più come prima.

   Mio padre aveva una piccola cicatrice sulla guancia destra e gli mancava l’estremità del dito mignolo della mano sinistra ma era sempre attento a cercare di nascondere la sua piccola mutilazione tenendo chiusa la mano quando stava davanti alla gente. In chiesa pregava a pugni chiusi, d’inverno metteva i guanti. Un po’ si vergognava. Solo mia madre sapeva come se l’era procurata ma girò la testa dall’altra parte la volta che domandai della mano di papà. Non ne ho mai saputo niente.

   Quando mio padre tornava dal lavoro la cucina si riscaldava, la sua sedia con i braccioli di pelle imbottita lo aspettava come una sposa, scostata un filo dal tavolo, con le gambe sempre sopra le stesse piastrelle. Quando entrava dalla porta lui le cose si illuminavano ma sembrava che fosse malato agli occhi perché li strizzava spesso come se il mondo fosse per lui una luce troppo forte.

   «Anche questa è fatta» diceva quando terminava la sua giornata o un lavoro grosso. Forse voleva dire che la vita è un impegno che bisogna per forza onorare già che uno sta al mondo.

   «Se non ce la metti tutta che sei venuto a fare quaggiù? A scaldare una sedia?» diceva le volte che da ragazzo portavo a casa un quattro in latino. Se portavo a casa un sette in matematica diceva sorridendo: «Sì ma c’è anche l’otto». E io abbassavo la testa e mi veniva quasi voglia di piangere ma già dal giorno dopo inseguivo il sei in latino e l’otto in matematica e a forza di inseguire quel sei e quell’otto mi sono laureato e oggi ho un mestiere da camicia e cravatta. E pensare che mio padre a stento sapeva leggere e scrivere ma se non era per lui io la camicia bianca me la sognavo e la anche vacanza al mare d’agosto con la famiglia e tutto quanto il resto.

   Conoscevo bene le sue mani, le braccia pelose, le gambe, il pizzico della sua barba sulle guance e soprattutto l’odore, un profumo come di erbe amare e sambuco appena sbocciato. Me lo sentivo piantato in fondo al cuore quel buon odore appena sveglio come se mio padre mi fosse entrato in cuore col saluto della buonanotte mentre stava ritto sulla porta della camera. Parlava poco ma quando lo faceva mi pareva quasi che tuonava. «Ciao e fa’ pulito se no ghe lo dico a la mama stasera» mi sussurrava all’orecchio mentre al mattino presto bevevo il caffelatte con dentro il pane biscotto e lui si preparava per scendere in campo e io ripassavo la lezione prima di prendere la corriera azzurra per andare a scuola. Mio padre andava ovunque, il più delle volte col ceccatino o con la bicicletta. Cinquecento lire di miscela, delle volte anche duecento, gli bastavano per tutta la settimana.

   Io credevo che quando decideva lui smettesse di piovere e il vento di soffiare, così potevo uscire in corte a giocare con Gianni e Claudio dai capelli rossi e ricci. Gianni portava di nascosto una sigaretta che aveva rubato a suo padre che neanche se ne accorgeva, Claudio le biglie e io carta e matita per segnare i punti, delle volte i soldatini di piombo, le giubbe rosse. Mia madre no, lei usciva di casa solo per andare a messa e per fare la spesa in bottega che stava aperta a due passi da casa.

   La nostra casa neve, vento e acqua sembrava la carezzassero tanto era solida, un baffo le facevano i venti forti di tramontana. Si vedevano i sassi dentro e fuori. I muri erano così spessi che se aprivo le braccia sulla soglia non ce la facevo ad abbracciare tutto lo spessore del muro. Uno dei vecchi col mio stesso sangue, testa in testa, se l’era costruita da solo con l’aiuto di un paio di amici lavorando la sera d’estate e la festa, sasso su sasso, secchio di malta dopo secchio portato in spalla, trave su trave, tegola sopra tegola. La casa pareva un chiodo forte piantato in mezzo alla campagna. Un paese piccolo il mio, paese di case sparse la maggior parte, con la vigna e gli alberi da frutto intorno, sì e no cinquecento anime, neanche cento case, tutte bianche di calcina, un paio rosse come la nostra, con la vigna che faceva ombra sulla porta, cucina grande e tinello a piano terreno, le camere sopra e l’orto dietro con la concimaia e il gallo che ingallava la gallina sopra il letame fumante e il cane in corte che scacciava le mosche con la coda.

   «Uno che uomo è se non ha casa sua? Un fallito, un buono a nulla» diceva mio padre, «ma è vero anche che quando la gabia l’è fata el merlo more».

   «Sempre con queste frasi fatte, papà. Non significano niente. Roba vecchia.»

   «La vita nostra è tutta lì dentro, invece, dentro quattro parole in croce. Tu avrai studiato, parole ne sai a milioni, le giri e le rigiri ma la verità ultima tu non la conosci.»

   «Dimmela tu allora se la sai.»

   «La verità non la si racconta, bisogna scoprirla da soli, vivendo.»

   A primavera fioriscono la viola e il piscialetto sotto la quercia grande, il vento di tramontana spazza le foglie secche del grande albero ancora appese ma il verde non si vede sui rami ed è marzo inoltrato.

   «Guarda che la quercia la xe pianta tardiva» dice Rino passando davanti casa. È lì che mio padre, con tutto che ha le gambe stanche, prende la scala grande, monta piano sui rami con la forbice da vigna e un seghetto per vedere se dentro il ramo c’è ancora il verde. Scende con le mani deluse e gli occhi bassi. Due parole e poi niente più: «È finita». Si mette a letto, non mangia, non beve, parla col contagocce.  

   «Prega per me,» dice con un fil di voce all’orecchio di mia madre in lacrime, «e se mi vuoi un po’ di bene prendimi il perdon d’Assisi l’ottobre che viene che di patire sono già stanco qua, di là sarebbe troppo».

   «Che ti ha detto, mamma?»

   «Vuole il perdon d’Assisi, figlio mio, che preghiamo per lui.»

In tre giorni mio padre se ne va che il cuore suo non regge la rovina.

   La primavera è stagione piena di insidie; a neanche un mese di distanza dalla morte di mio padre, mio fratello e io seppelliamo anche nostra madre. Non hanno patito né l’uno né l’altra, non hanno fatto in tempo e ora si prendono il sole e il vento insieme sotto una pietra bianca, una in due.

   La quercia grande è morta lei per prima e ora sta lì che se la mangiano i tarli, l’abitano formiche rosse, termiti, vespe. La passera e il merlo vengono sul ramo secco a cantare ancora ma il nido lo vanno a fare lontano, giù nella valle verde e la casa pare un vecchio solo.

   I vecchi del paese se ne sono andati anche loro uno dietro l’altro. Hanno passato la mano.

   Così un giorno io e mio fratello chiudiamo la porta della casa vecchia e mettiamo un cartello con scritto su “Vendesi” e un numero di telefono. Mio fratello non mi somiglia per niente, lui di anni ne ha quarantaquattro e fa il dottore dei cristiani in un ospedale di città, si prende cura dei cuori malati.

   Abito ora un appartamento di quattro stanze e due bagni, uno cieco, in una palazzina di dieci piani, color rosso mattone, più alta e più vicina al cielo dell’albero grande della mia casa di campagna ma quell’azzurro che vedo al mattino con la tazza del caffè lungo in mano è un abisso, lontano com’è dal mio cuore. Il cielo lo vedo anche dal terrazzino che è grande come un fazzoletto piastrellato di klinker stonalizzato, con il vaso del basilico e il rosmarino rinsecchiti appesi alla ringhiera. Ma è un cielo foresto.

   L’ho sognato una volta, una sola in cinque anni, una notte che ero prigioniero nel mio appartamento di città con l’aria condizionata che andava a palla. Camminava svelto sulla gobba della collina scuotendo il capo, la mano disegnava qualcosa nell’aria. Si voltò, mi sorrise un filo, si fermò. Sedette su un sasso, mi invitò a sedere sull’erba accanto a lui. Mi parve di sentire il suo fiato di menta e sambuco selvaggio. L’odore stesso che aveva in vita. Gli dissi: «Abbiamo venduto la casa e il campo, papà. Non sei arrabbiato vero?»

   Stava per aprire la bocca per dirmi qualcosa ma in quel preciso momento la campana della torre civica batté l’ora, mi svegliai, presi un caffè veloce in cucinino senza andare in terrazzo, scostai con la mano la tovaglia con le briciole del pane della cena ancora sopra, piansi, col biscotto secco piantato in gola da soffocare come la vita che mi ritrovavo in mano.

   Mia moglie non mi ha visto piangere che avrei voluto tanto invece che avesse visto per avere la scusa di raccontare anche a lei con la testa sulle sue ginocchia della quercia grande, di mio padre e tutto il resto e avere così consolazione dei miei sbagli. Non so se ci sarà un’altra occasione, se avrò ancora voglia di parlare della casa perduta nella campagna con la quercia davanti. Con l’agro in bocca vado a scuola. Forse mio padre sarebbe orgoglioso di sapere che quella scuola con dentro più di mille ragazzi e più di cento professori la dirigo. Io, sì, il ragazzo che prendeva quattro in latino. Lo faccio come lui governava la casa e le stagioni nel campo. «L’amore come prima cosa, il resto non conta» diceva e mi ha fatto convinto. Se avesse potuto dire la sua, forse mio padre mi avrebbe fatto un rimbrotto per avere venduto la nostra casa, o forse no. Non so. Per saperlo devo tornare da dove tutto è cominciato.

   Tutti morti in paese quelli che una volta salutavano. Non conosco più nessuno. Uno giovane che passa mi pare che assomigli a questo e a quello che porto nel cuore ma non sono sicuro e non chiedo. Mi sento un intruso. 

   Eccola lì la nostra casa, svuotata, un geranio stecchito nel vaso alla finestra, la soglia consumata da milioni di passi, la grondaia arrugginita, il nome nostro sfarinato sulla facciata rossa, la stalla muta invasa dalle erbe matte, la vera del pozzo divelta, l’orto divorato dalla gramigna e dall’ortica, la vigna sfinita, robe vecchie e cianfrusaglie ammucchiate nella corte sotto il sole. Qualcosa deve essere andato storto a chi l’ha comprata e non ha neanche cominciato il lavoro per rimetterla a nuovo. Sull’uscio un cartello: “Vendesi” e un numero di telefono. Forse mio padre quel mattino voleva dirmi che dobbiamo ricomprarla noi la casa vecchia, mio fratello e io, anche solo per venirci a passare l’estate con la famiglia, lontano dalla prigione della città e farci magari una piscina al posto della quercia.

   Mi sono seduto in terra, presso la ceppaia della vecchia pianta, ho pianto. Mentre tenevo la testa fra le mani il cuore mi parlò: «Tra poco è la festa di San Francesco, una volta a scuola si faceva vacanza».

   «Andrò a confessarmi. Non lo faccio dalla quinta ginnasio. Non so con che faccia ma ci andrò. Glielo devo» risposi.

   «Di cosa hai paura? Cristo è venuto per i peccatori mica per i giusti, non sarai rimandato indietro a mani vuote.»

   «Dirò che vengo per mio padre, per l’indulgenza. Non voglio che soffra di là.»

   «Lui ti risponderà: “Io sono venuto in terra per fare la volontà di mio Padre. Fai anche tu lo stesso. E ora vieni a me. Tutto è perdonato.»

   Salgo in macchina. Prima di girare la chiave chiamo mio fratello al telefono.   

 

 

Motivazione del Premio

Con ritmo incalzante, l’autore delinea una traiettoria in cui il passato incardina il presente nell’inseguimento di un progetto futuro di “restanza”. Non di nostalgia si tratta né di rimpianto ma di atmosfera avvolgente individui e luoghi, ben rappresentata da una quercia e la vita parallela a quella del padre, la sua morte e le conseguenze sull’ esistenza dell’uomo. Espressioni emblematiche narrano l’epilogo di cose e persone, accompagnato dalla loro eredità materiale e immateriale che fanno presagire un ritorno ai posti dell’infanzia e della giovi-nezza alla ricerca di senso, nutrito da sobri sentimenti, paesaggi, ricordi. Se una grande sfida del nostro tempo è l’uscita dall’antropocentrismo, per un riposizionamento esistenziale come parte della natura e del cosmo, il racconto ne mostra vie percorse dall’amore. Nessuno uguale al padre, nessuna pianta uguale alla quercia e al mondo che stava loro attorno. Proprio questa unicità vale la pena di raccontare. Un presente di uomo realizzato non basta più; un passato dalle luci rifrangenti delinea nuove aspettative, appena abbozzate, in un finale aperto all’immaginazione.

Claudia Farina

 

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