Il Cenacolo Letterario e Poetico di San Bonifacio
Le poesie premiate

Le poesie premiate

Poesie VINCITRICI  

Premio Simone Lorici

 

       1° PREMIO

IL RUMORE DEI TUOI PASSI                                             di Lucia Lo Bianco – Palermo
(In memoria di Peppino Impastato)

Mi sfiora l’aria leggera del mattino
e il tuo ricordo ritorna prepotente,
quell’energia di giovane ribelle
che ritagliava passi incerti sul domani.
Quasi respiro le stoppie per i campi
che hanno vissuto il tuo ultimo sorriso
e brucia il sole sui binari della pelle
mentre rivivo la tua morte dentro gli occhi.
Cento e poi cento sono i passi trascinati
verso i cunicoli e i gomitoli del male.
Cento e poi cento i suoni urlati al vento
che indifferente disperdeva le speranze.
E carne giovane viveva le tue ombre
seguendo tracce e odori per capire,
caro Peppino, lo sai che le parole
mutano sassi e pietre nelle aiuole,
caro Peppino viaggia la tua voce,
e come musica si veste quand’è sera,
come le stelle che videro il tuo volo
e ancora cercano la luce nella notte.
Caro Peppino, non muore la memoria
ed i tuoi passi ancora fan rumore
mentre il silenzio brutale dell’attesa
oggi svanisce nei sentieri dell’aurora.

La motivazione del 1° Premio

 “IL RUMORE DEI TUOI PASSI”

L’Autore, con le parole de IL RUMORE DEI TUOI PASSI, rinnova la memoria, interviene sulle ferite, autorizza a se stesso e al lettore a riaprire un conto mai chiuso con la vertigine presente nella brutalità della morte di mafia.

Utilizza con sapienza ossimori lievi (e forse per questo più forti), come l’aria leggera contrapposta e vicina al ricordo che ritorna prepotente.

Non urla l’Autore, scava, consapevole che un tono troppo forte della parola tradisce un pensiero spesso debole.

E sono viaggi gli inviti che ci propone, viaggi sui binari della pelle, dentro i gomitoli del male …

Cosa ci aspetta? Viene da chiedere, quando ci addentriamo nelle vie sconosciute di un gomitolo? Sappiamo solo di entrare in un mondo complesso con le sue salite improbabili e le ancora più misteriose discese. Ma, se possibile, la forza di questo testo, a mano a mano che il gomitolo si svolge, ci travolge, aumentando i giri, alzando le asticelle della magia che sa mutare le pietre disperse nelle aiuole, ovvero capace di trasformare la realtà di ogni giorno, di ogni sguardo.

La chiusa della poesia è abilmente agrodolce, sospesa fra le stelle che osservano mute e la memoria che continua a parlarci dentro un silenzio che si scioglie nei colori ineffabili dell’inizio del giorno. Un nuovo giorno? Forse un giorno nuovo.

          A cura di Andrea Ciresola (Giuria Popolare)

 

 

     2° Premio

Nel buio profondo che mi rassomiglia                  di  Vittorio Di Ruocco – Ponte Cagnano (SA)

Dedicata a tutte le persone sordocieche

Non ha confini il mondo che mi sfugge
nel buio profondo che mi rassomiglia e
a tratti come un gorgo mi travolge.
È
stato forse un breve sortilegio
a rendere i miei occhi come specchi
due scudi impenetrabili alla vita che
non fa più rumore del silenzio.

Perché il destino cinico e perfetto
mi ha sfigurato con le sue cesoie
rubandomi la luce e la speranza di
catturare l’anima del vento
l’urlo del mare che sciaborda intorno, il
tuono, il lampo, il rosso del tramonto, il
bianco scintillante dell’aurora?

Le lacrime però non le nascondo
sono diamanti labili e fuggenti
forgiati dentro l’anima che brucia
al devastante fuoco dell’inferno.

E mentre affondo nel più tetro abisso
cercando con le mani una carezza
che mi faccia sentire ancora vivo c’è
chi mi sventra con le sue parole a
offendere la mia diversità
come se fosse pena da scontare per
la mia sola colpa d’essere nato.

Ah malasorte iniqua e truculenta,
perché mi hai condannato al buio
perenne all’assoluto vuoto del silenzio
lasciandomi cadere nell’abisso
oscuro e inenarrabile del nulla?

Signore mio, concedimi la morte
oppure dammi in cambio la speranza
di poter catturare la bellezza:
con nuovi sensi fammi accarezzare
il dolce volto della mia esistenza.

 

3° Premio                

A mio padre malato d’Halzeimer                             di    Giovanna Vitrano – Dublino (Irlanda)

 Amico mio d’infanzia, il gelsomino,
vorticava di luce verdi scaglie
su me eclissata in grumo di gaiezza.

Nell’ombroso castello tra le foglie,
in giardino anelavo la tua voce e
tu il vezzosetto nome di tua figlia
chiamavi, la nicuzza, e da mestizia
fingendoti premuto a non vedermi,
attendevi che il cuore mio di bimba
s’addolcisse e selvaggia io comparissi
a te lieto, papà, di regalarmi
cesti di more, prole d’Ostro riarsa,
e roselle da polvere ingemmate.

Roventi estati all’isola tornata,
nei giorni miei impazienti della vita,
scorrevano allegrezza tra noi e brighe,
onde d’oro tra le ombre d’un agosto.

Il tempo ci mancò con le parole.

Al passo di lumaca sulla roccia
t’eclissasti in un grumo di mancanza.

Sperando ripescarti dal tuo nulla,
battagliavo silenzi d’oltremare

di pallidi “papà ti voglio bene”,
gettando nostri nomi e roselline
pietre-foto e fragole-semenza nel
precipizio della tua distanza.

Estremo il giorno, l’ultima stagione
nel prologo affannato di partenza,
sedevi nel terrazzo dei saluti.

Alzasti scarno il braccio sussultante
il gelsomino, lieto, a me mostrando.

Ricordavamo giochi senza chiusa e,
quando credevo più non ritrovarti,
sul varco senza pace e senza guerra
dall’arco muto agli occhi tuoi io seppi
che noi non ci saremmo mai perduti.

 

        Poesie VINCITRICI 

      Premio Giovani
         (14-19 anni)

 

 1° PREMIO

AZZURRO INFINITO                                             di Ginevra Puccetti  – Porcari (Lucca) 

Dipinsi d’azzurro
la notte oscura.

Nei miei occhi brillavano ancora
le stelle degli anni migliori
e nel mio cuore ancora albergava
l’amore d’un tempo perduto.

Dipinsi d’azzurro
la malinconia d’una notte.

Fu soave
per me
vedere il colore indispensabile
colmare
ogni singolo vuoto dei miei pensieri
divorare
ogni mio indesiderato ricordo.

Ma impavida
Io fui
davanti all’azzurro intenso
e in un istante
m’illusi d’essere
finalmente
libera.

Dipinsi d’azzurro
una notte d’inverno.

Annegai
dentro un mare tempestoso
di lacrime.

Fui dolore
per essere speranza,
fui tristezza
per essere sorriso.

E dentro me
Io dipinsi
l’azzurro infinito
oltre le nuvole,
oltre le stelle.

La motivazione del 1° Premio

“AZZURRO INFINITO”

 

Lirica semplicemente coinvolgente, parole tese in un arco che lancia frecce verso l’infinito stellare. Con un gesto di origine materica, viene afferrato il colore, sempre l’azzurro, con cui avvolgere tenebre e malinconie, paesaggi e sentimenti, intensi e vari. Di quale azzurro si tratta? Un azzurro unico, senza sfumature differenziate, primordiale come un archetipo a cui affidarsi per uscire da oscurità, dolore, tristezza. Un segno pittorico rapido e sciolto, la tinta stesa in pennellate corpose e a rilievo, in cui le forme-sentimento emergono con lucido, immediato, vigore. Così la poesia procede per immagini essenziali, spontaneamente espresse, talvolta, da ossimori, uniti da una crescente musicalità che accompagna i versi.

L’ intonazione è intimista, rotonda la voce poetica che esprime la vena diaristica nel segno di un’immediatezza della parola, avulsa da superflue ridondanze.

Temi eterni del dolore, dell’amore, della paura, della libertà sono narrati con talento naturale, come un mondo percepito in bianco e nero, fino a che la tensione creativa vola alto, non in mondi fantastici, ma ancora una volta materici di nuvole e stelle dipinti d’azzurro, nello spazio ideale per coltivare sorriso e speranza: dentro se stessi, nell’io profondo. Così, il pennello intinto negli abissi delle emozioni sostanzia il metafisico, nel tono conclamato e rigenerante dell’azzurro, in un vortice che dal visibile porta all’intimo, all’invisibile, al salvifico.

Claudia Farina – Giuria Popolare

 

 2° Premio

La contemplazione                                                      di     Sara Guerrini – Lugo (Ravenna) 

 finestre
finestre che sono come cornici di un quadro
abbracciano il mondo.

Ammiro, disinvolta
quasi posso toccare
le opache chiome degli alberi,
i loro respiri di nebbia,
i cupi tetti delle case,
e i volti dei passanti che mi scrutano.

il vago contorno sfumato
degli alberi, delle case e delle persone
blocca gli ansimi dei miei respiri
schiude
i miei pensieri.

Così
oltre quell’alienante foschia,
su per le scabre campagne,
attraverso le sinuose colline,
affondano le radici
i miei sogni.

oggi il mio spirito corre,
fugge e non torna più.

 

3° Premio                      

Rimanere vivi                                                                     di    Riccardo Bifulco – Frascati (Roma)

Guardo
Dal vetro sottile di una finestra antica
Il cielo cinereo di una giornata spenta
Raggi di sole rapiti da nubi
Viottoli grigi d’un freddo arcano
Misera quiete che avanza gravosa
Deboli, timidi animi umani
Che muti gridano di solitudine
Fra mura spesse dal volto solenne
Fedeli guardiane di ore morte.

Guardo
In me una tela dai colori sgargianti
Tempesta di emozioni giovani
Nell’incubo di una gelida calma
Di piatta acqua salata.

Arte, linfa di vita
Mischia, arraffa, scompiglia!

Mantieni il dolce disordine
Per restare colorati
Per rimanere vivi

 

Poesie VINCITRICI

Premio Dialetto Veneto

 

 

 1° PREMIO

 

 DEME PAROLE …                                                                di  Dante Clementi Concamarise (Vr)

Dème parole che gà l’udor de la me tera adosso,
parole scaezzà da strussie e da fadighe,
parole che le vive strapegando a l’aria le raìse,
come le vece piope che el vento sbrega in pingolòn dei fossi.

Dème le parole che se taca a i giorni grisi coi denti e con le onge,
quele che sconde par vergogna i zighi in coste ai muri e le stradele morte.
Dème parole infumentà dai foghi strachi che pian pianìn se smorsa
vissin a le careghe frede; parole inbonbegà de lagreme e de luti,
ingrotolie soto nissòi de vite sbuse.

Ridème el sgozzolàr dei candelòti su le porte, le bissaboe de le rondene sui copi,
i niài de boche picinine intorno a le toàie onte.
Ridème le fole amare arénte i goti suti,
i ame inzenocià soto le stele, i fiori sechi dei me pori orti.

Déme le parole dei me’ veci crepà sensa ‘na preghiera,
co’ la facia imustacià de more e le man ancora struche
intorno a ‘na sbrancà de fien robà longo ‘na stradela.                        

Démene a zento, a mile, a zeste piene 
che mi son zercante che le arbìna ancora;
marangon che le giusta, dotor che le risana,
sarto che le scuncia tute con un fil de fede nova. 

E dopo ve le darò a una a una, vive e più bele,
come se le fusse stà in boca ai re, in boca a le regine.
Podarì sentàrle con vuàltri a tola,  in un sgorlòn béarle tute,
portàrle intorno al col come colane, 
farne fanài che sluse ne la note scura.                                                 

Solo ‘na roba ve domando in dono:
quando moro sepelìme de parole, ma de le me parole,
quele che ancora zuga tra  le case ude
e  dopo le se cucia al sol in compagnia dei veci
sentà su un albio, come su un trono d’oro. 

 

La motivazione del 1 ° Premio

 Deme parole…

Usare il dialetto per scrivere poesia trascina con sé -lo sappiamo- una pesante e difficile tradizione legata al bozzettismo, al paesaggismo, alla cultura del paesello, delle piccole cose. Ma una cosa è poesia in dialetto, una cosa è poesia dialettale, appunto; e, soprattutto nel secondo Novecento, abbiamo imparato a conoscere autori che hanno “liberato” il loro dialetto dalle pastoie del dialettalismo (da Pasolini a Zanzotto, a Calzavara, a Giotti, solo per citarne alcuni). Il percorso non va dal dialetto, da una tradizione, verso la poesia: si scopre il dialetto mentre si cerca la poesia, lo si utilizza come codice espressivo. Nel testo di “Deme parole…” il verso lungo e cadenzato sottolinea l’esistenza di un “dire”, di parole lontane da retoricità e banalità del quotidiano e della cultura ufficiale, agganciate, attaccate a un mondo che rischia di scomparire, parole/cose che il poeta reclama, chiede per sé e riesce, col suo fare poesia, a riparare, a guarire, a rinnovare: come fanali ad illuminare la notte scura dell’esistenza. Il fare del poeta rigenera le parole, e con esse “vive e più bele, come se le fusse stà in boca ai re, in boca al e regine” vuol far rinascere anche le cose. Al poeta le parole sono strumento, sono una sorta di viatico: quasi svaniscono con lo svanire dei versi, e ritroveranno, con la scomparsa di chi le ha dette e scritte, la loro essenza, anche al di là delle cose stesse.Utilizzare il codice linguistico del dialetto è solo apparentemente facile perché il dialetto nasce come lingua detta, non scritta (”la forza dei dialetti sta nella loro storia diversa da quella della lingua letteraria, venente di là dove non è scrittura né grammatica” (Zanzotto)): e scrivere in dialetto è difficile, anche solo per individuare le regole di trascrizione di fonemi inusuali.L’autore qui utilizza con sapienza un vocabolario assai ampio e ben consapevole delle armonie che riesce a costruire, con un respiro a volte appena affannato dall’ampiezza dei versi.

Agostino Contò – Giuria Popolare


 2° Premio

De là del monte                                                                     di       Alberto Brunelli – Verona

No ghe la fasea a dormir, da bocia.

Quando dimandavo, i me disea:
To pare l’è ‘ndà de là del monte!
De la del monte? Sa ghé de là del monte?

Le mine del carbon! I me disea.

El monte lo vedo, sora el prà, fora dala corte.

Cissà sa gh’è, là dedrìo, pensavo.

Me vegnea in mente, in leto, la to facia,
i cavei impomatè e la camisa dela festa,
la boca seria, come te nessi a obito.

Me vegnea in mente, in leto, le to mane
grande, che me strucava, la to barba
che rassava le me ganasse rosse de butìn
in meso ai basi, ai zughi che non gh’era.

L’udor da omo, che volea verghe anca mi,
le spale, la forsa salvéga, la vosse che osava
al musso cargo de fassine, sganassando.

Me vegnea in mente quando t’é saludà
la mama. Séremo tuti in fila, par saludarte.

Te l’è vardà un secondo, coi oci lustri.

T’è vardà noialtri boci: fé pulito!

T’è vardà, duro, el treno par Milàn.

In do nasìo, upà? De là del monte, bocia!

De la del monte? Sa ghé de là del monte?

Gh’è un posto che se ciama Liegi.

Ghe serve to upà par cavar el carbon!

Me vegnea in mente, in leto,
le to mane grande che se sassinava,
la camisa dela festa nera de carbon,
l’udor da omo che se fasea pesante,
sensa na bava de aria, al stròo vigliaco,
la vosse straca che osava a n’altro musso,

cargo de piere. Sganassando? No so dir.

T’avesse visto ancora, t’avarìa dimandà.

 

3° Premio  

Solo sesant’ani                                                               di       Sergio Bertelli   Cologna Veneta (VR)            

El g’a messo l’omo par rovinar sta tera,
la xe na roba grossa che no la par vera:
        t’ei fòssi no se sente pì l’acoa sborbotar
       e gnaca no se vede pì i luzi sbochezar,
ghe xe i sloti sechi e la tera xe crepà
e anca tante piante se g’à tute brustolà,
        xe suto da par tuto no cresse pì brespagne,
       se g’a inpinà de polvare anca le cavezagne.

Solo sesant’ani parché i nevodi veda:
che t’ei fòssi manca l’acoa e che la tera ceda,
che no se pol pì bere t’ei fòssi drio ‘na strada
e lì drento bagnarse i piè dopo ‘na caminada,
de nar catar i gnari coi oseliti drento,
bagnarse co la piova e po’ sugarse al vento
      de caminar senza scarpe so l’erba moja
      e de còrar e zugàr no averghe pì la voja.

 Solo sesant’ani par stofegarse de imondizie,
par sodisfar la voja de magnar primizie,
      par inpinar i casoneti co la plastica e rifiuti,
de roba vanzà e butà via parché no piase a tuti,
coi nostri vizi e co le nostre esigenze,
desso semo qua a pagar le conseguenze,
    xe sparìo el senso de la normalità
    e del vivar natural se ghemo desmentegà.